BONOMI E CELLA: RIFLESSIONI PLASTICHE DI FABRIZIO PARACHINI

La materia determina le forme dell’arte. Inevitabilmente, verrebbe da dire, indirettamente e naturalmente, sarebbe più corretto affermare. Nel corso dei secoli gli artisti oltre alle tecniche consolidate e ai materiali tradizionali hanno sempre sperimentato tecniche e materiali nuovi con l’obbiettivo di cercare, e trovare, nuovi codici espressivi e nuove forme più aderenti a una realtà e a un mondo immaginale in costante mutamento ma, soprattutto, per alimentare una creatività priva di infondate limitazioni.

A questo riguardo sono emblematiche le parole di Jackson Pollock che ha scritto: «La mia opinione è che nuovi bisogni implicano nuove tecniche. E gli artisti moderni hanno trovato nuove maniere e nuovi metodi per raggiungere i loro obiettivi. Mi sembra che il pittore moderno non possa esprimere questa epoca, l’aereo, la bomba atomica, la radio, nelle antiche forme del rinascimento o di qualunque altra cultura del passato. Ogni epoca trova la sua tecnica»1.

Anche i materiali plastici, i polimeri, sono entrati a tutto diritto nel bagaglio artistico ormai da un centinaio d’anni e via via hanno affermato la loro identità, la loro versatilità e insostituibilità. L’utilizzo delle resine viniliche e acriliche come medium, per esempio, ha permesso la produzione di colori più maneggevoli e resistenti utili a tante nuove pratiche espressive e compatibili con supporti diversi da quelli tradizionali. La celluloide fu il materiale con cui Naum Gabo tra il 1910 e il 1920 realizzò le sue prime sculture sostituendola poi, negli anni trenta, con il polimetilmetacrilato (plexiglas) materiale successivamente ampiamente utilizzato da tantissime tendenze artistiche. Anche il PVC (polivinilcloruro) fu sperimentato da molti artisti, probabilmente per primo da Oldemburg; e ancora pensiamo al poliuretano delle espansioni di Cesar e dei lavori di Dubuffet e Pistoletto. Per non parlare delle resine, siliconi e fibre di vetro con cui gli artisti iperrealisti hanno potuto realizzare figure scultoree dall’apparenza più vera del vero, “iper”realiste appunto.

Corrado Bonomi e Gianni Cella da sempre hanno fatto della plastica la materia privilegiata con cui realizzare le proprie opere: non la sola, ovviamente, ma sicuramente quella dalla pregnanza maggiore e dalle maggiori capacità di mostrare e incarnare gli aspetti più distintivi dell’attualità e i cambiamenti culturali, sociali e di costume avvenuti nel mondo che stiamo vivendo.

Il primo divide la sua pratica tra la modellazione di figure e personaggi ex novo e l’utilizzo di oggetti d’uso quotidiano, pupazzi, giocattoli che scompone, ricompone, assembla per creare opere i cui titoli attribuiti (che ne sono parte determinante) evidenziano una sorta di relazione linguistico-concettuale tra la forma percepita, ciò che questa potrebbe/vorrebbe essere e ciò che realmente la costituisce. L’artista si muove al di fuori di una categorizzazione di generi in quell’ambito “che si dedica all’oggetto” usato, questo, perché portatore di una propria identità: plasmabile come qualsiasi altra materia tradizionale che “costituisce” un’opera d’arte.

Il secondo fin dall’esordio, avvenuto all’interno del Collettivo Plumcake, usa la vetroresina dipinta con colori industriali, dalle tinte antinaturali, come materiale da plasmare duttilmente per creare forme antropo-biomorfe immaginarie, dai tratti fisionomici semplificati e come fissati nel tempo, capaci di andare a costituire un mondo parallelo a quello reale di cui però ne assorbe i vissuti mentali e le suggestioni culturali e affettive. La vetroresina è scelta specificatamente dall’artista perché “non ha memoria storica”, è “facilmente modellabile come la plastilina” e la sua superficie finale non porta traccia degli interventi manuali risultando liscia come tanti prodotti che potremmo definire, nuovamente, oggettuali o “industriali”.

Ambedue usano dunque un materiale che definirei simbolo del ventesimo e del ventunesimo secolo, talmente embricato con la nostra vita da esserne parte essenziale e in certi casi, pensiamoci bene, indistinguibile. Potremmo dire che le opere dei nostri due artisti rispondono a quella “estetica del sintetico”, una definizione rubata a Marina Pugliese2 , che è ormai una specificità acquisita del nostro “sentire comune” dalle implicazioni culturali profonde. Esse vogliono dialogare con il contesto urbano perché ciò di cui sono fatte è già parte, inconsapevolmente, delle vite che lo abitato e le loro forme sono li per ricordarlo a chiunque le guardi.

Fabrizio Parachini

1 Jackson Pollock, My Painting, 1947-48, in: P. Karmel (a cura di), Jackson Pollock. Interviws, Articles, Review, The Museum of Modern Art, New York, 1999.

2 Marina Pugliese, L'estetica del sintetico. La plastica e l'arte del Novecento, Costa & Nolan, 1997.